Settimana santa: “Sette Parole” che cambiarono il mondo

 

Via Crucis

 

La settimana santa ci lascia un’eredità preziosa. Gesù nell’ultima Cena ci consegnò i suoi ultimi gesti e le sue parole che sono per sempre un suo dono per noi.

Un primo dono è l’istituzione dell’Eucarestia, come supremo dono di amore e di vita.

Un secondo dono è la lavanda dei piedi ai discepoli, come supremo dono di amore, servizio, attenzione.

Un terzo dono è il suo discorso d’addio. Sulla Croce i suoi doni si moltiplicarono.

Tutto il suo atteggiamento e le sue parole, note come “le sette parole” sono al centro di tali doni. Non si tratta di parole isolate, ma di brevi frasi. Le citiamo seguendo i quattro Vangeli.

Matteo e Marco riportano: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” (Mt 27,46; Mc 15,34).

Luca ricorda: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,24), “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43) e “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46).

Giovanni ricorda: “Donna ecco tuo figlio! Figlio ecco tua madre” (Gv 19,26-27), “Ho sete” (Gv 19,28), “Tutto è compiuto” (Gv 19,30).

Pronunciate davanti a tutti, ma nel nascondimento della passione e della croce, sono il luogo della piena rivelazione di Gesù, come persona umano-divina, vero Dio e vero uomo, che manifestano la sua filiazione divina e la sua piena umanità.

Matteo e Marco sottolineano la piena solitudine di Gesù, Servo sofferente, caricato dei peccati dell’umanità, nell’oscurità e l’abbandono dei suoi discepoli e nello scherno e derisione dei presenti. Anche in tale condizione, però, Gesù prega, con le stesse parole del Salmo 22, uno dei più tragici della Scrittura, in cui il salmista invoca dal Padre la salvezza, che confida di ottenere.

Come Figlio di Dio, Gesù si riconosce anche nell’invocare e l’intercedere dal Padre il perdono per i suoi crocifissori. Nel perdonare il ladrone, invece, Gesù esercita pienamente e direttamente la sua prerogativa divina di assolvere, di perdonare i peccati e il suo potere divino di dare accesso al paradiso.

Nel consegnare il suo Spirito, Gesù esprime il segno e pone il sigillo di tutta la sua rivelazione evangelica, in un atto supremo di affidamento, di speranza e di abbandono nelle mani del Padre, al quale si consegna totalmente e definitivamente.

Nell’affidare il discepolo Giovanni alla Madre e la Madre a Giovanni, Gesù attua la reciproca consegna personale dei due, anche come fatto universale. Mediante questo, la Madre e la Chiesa generano nuovi figli nella fede e nuovi discepoli e fratelli del Figlio Unigenito. Gesù li affida alle cure materne di Maria e della Chiesa.

La sete di Gesù è reale, come per tutti quelli che erano sottoposti al terribile supplizio della croce. È, quindi, prova piena, fino in fondo, della sua vera, autentica e reale umanità.

È anche prova della sua divinità, come ardente desiderio di portare a termine la sua opera di salvezza e ricondurre tutta l’umanità e il mondo al Padre.

Essa prelude alla frase “tutto è compiuto”, che esprime un duplice senso. Il primo senso indica che il disegno di salvezza, misericordia e amore del Padre è stato pienamente compiuto. Il secondo senso indica che il disegno di salvezza, misericordia e amore è stato pienamente attuato dal e nel Figlio Gesù, al quale il Padre lo aveva affidato.

Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, lo ha portato a pienezza e compimento.

Nella Settimana Santa, Chiesa e Liturgia celebrano tutto ciò, per mostrare che il cammino compiuto da Gesù ora è affidato alla Chiesa e a ogni credente, perché avanzino insieme a tutta l’umanità verso la salvezza di tutti.

Sta a noi continuare questo cammino di santificazione, nella nostra generazione, per poterlo affidare a tutte le nuove generazioni che si succederanno nel mondo, fino alla fine dei tempi.

Gualberto Gismondi